À propos de Paris

Quasi due mesi a Parigi… e forse è proprio ora di scrivere qualcosa su questo blog, abbandonato ormai da troppi mesi.

Il tempo scivola via impazzito, e a tratti mi sembra di essere qui da sempre, a tratti mi sento come se fossi appena arrivata. L’unica certezza è che tre mesi sono un attimo, un attimo troppo breve.

Il tempo, appunto, sembra svanire, incasellato in un ritmo e in una routine nuovi, che non avevo mai provato, e insieme ai ritmi cambiano le prospettive. L’ufficio, le riunioni all’OCSE, e poi tutt’ad un tratto è venerdì. Ho capito il valore del week-end.

Mi manca scrivere – scrivere qualcosa che non sia un messaggio ufficiale – ma ancora non sono riuscita a trovare un posto per quest’attività in questa mie giornate parigine. Certo, i tempi indiani erano decisamente più adatti alle lunghe pause di riflessione sulla – e registrazione della – realtà circostante. Qui i tempi morti esistono, a tratti, ma ancora non riesco ad organizzarli… e poi, diciamocelo, come si fa a scrivere anche una sola frase sensata su una tastiera francese? Quantomeno tutte le A diventano Q e viceversa!

Parigi, dunque. La città è semplicemente grandiosa. Indescrivibile, perché qualsiasi descrizione verbale sarebbe inadeguata a contenere tanta bellezza, tanta potenza, in tutte le sue sfaccettature. Parigi è una sensazione – ogni luogo lo è, ma questo più che mai. E viverci, imparare a conoscerla davvero, prendendo l’autobus al posto della metropolitana, andando a fare la spesa, parlando coi vicini, è un esperienza coinvolgente.

Parigi… No, tre mesi non bastano. E per la prima volta sento che mi piacerebbe restare.

Ode à Lisboa

Una raccolta di pensieri sparsi, citazioni e impressioni annotate a margine di una mappa per non farle svanire. Un omaggio a Lisbona, che non può che essere dedicato a due persone che nella mia mente la rappresentano: un’amica che è stato splendido ritrovare dopo tanto tempo e un (futuro?) grande portoghesista.

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“Quanto costa il caffè?” “Nulla”, dice il cameriere dagli occhi grigi. “E’ un regalo di benvenuto a Lisbona.”

Lisbona non è la classica capitale europea. Non ha l’eleganza maestosa e romantica di Parigi, né quell’aria allo stesso tempo imperiale e disinvolta che contraddistingue Londra e Madrid. Non sembra trasudare storia da ogni ciottolo come Roma. Forse, a tratti, non sembra nemmeno una capitale. Soprattutto all’inizio.

Lisbona, infatti, non è un tipo da colpo di fulmine. Piuttosto, ti ammalia piano. Ti conquista e ti convince lentamente, giorno dopo giorno, mano a mano che la confidenza aumenta e ti sembra di comprenderla. Ti penetra delicatamente sottopelle e lì rimane, come una sensazione nuova.

Sentì che era un punto al limite di un continente. Sentì che era un niente, l’Atlantico immenso di fronte. E in questo sentiva qualcosa di grande, che non riusciva a capire, che non poteva intuire. (Guccini, Canzone della bambina portoghese)

Ciò che sorprende, di questa città, è la sua tranquilla umanità.

Quell’atmosfera pacifica e sospesa che avvolge la Praça do comércio, che si affaccia sull’estuario.

L’aria decadente dei vicoli, degli edifici abbandonati dalle piastrelle scrostate e, d’altra parte, la vivacità dei muri colorati e dei graffiti che decorano i palazzi, i cassonetti, i camion dei netturbini.

L’atmosfera incantevole di Belém, dove la storia di scoperte geografiche e spedizioni avventurose si mescola con un inebriante, meraviglioso profumo di zagara.

La crisi di oggi e i fasti del passato.

Lisbona è un muro giallo, un azulejo, un piccolo tram elettrico che si inerpica lungo una strada in salita.

Delicata, piacevole e affascinante come lo stile morbido, un po’ gotico e un po’ liberty, del Monasteiro dos Jeronimos.

Mediterranea, atlantica, moresca e coloniale allo stesso tempo.

Dolce come una ginginha servita in un bicchiere di cioccolato, barocca come un piatto di bachalau com natas.

Tranquilla come il Tago, malinconica come l’oceano, intravisto da una finestra della Torre di Belém.

Cordiale e ospitale come i portoghesi.

Sospesa al di là del tempo, tra i grattacieli futuristici di Parque das Naçoes e il ricordo di Vasco da Gama.

Luogo di riflessione e di nostalgia, di saudade.

Luogo in cui fare ritorno.

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7. Gesù sta arrivando!

C’era un settimo punto, nell’elenco delle cose che non mi sarei aspettata prima di partire… sapevo di averlo pensato, ma proprio non riuscivo a ricordare quale fosse… e poi stasera, rivedendo le foto, ho capito.

Forse avrà significato solo per i torinesi. In tal caso mi scuso con gli altri e li invito a rivolgersi a un torinese, nativo o acquisito, per eventuali chiarimenti.

7. Che Gesù stesse arrivando anche a Munnar. Che in effetti è un paradiso. Ma c’è di più: pare che lì stia arrivando anche Geova!

Pensieri in libertà

Un post cominciato il 30 novembre, su un aereo diretto a casa, e non ancora terminato…

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Please understand, Your Excellency, that India is two countries in one: an India of Light and an India of Darkness.” (Aravind Adiga, The White Tiger)

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Elenco delle cose che non mi sarei aspettata prima di partire

  1. Che uno scialle donatomi da un vescovo sarebbe diventato il mio inseparabile – quanto indispensabile – compagno di viaggio

  2. Che avrei deciso di dedicare la mia tesi a tre suore

  3. Che avrei trovato la forza di arginare l’esuberanza di una bambina-scimmia e la proverbiale invasività degli autisti di risciò, con risultati abbastanza convincenti

  4. Che Charlie non sarebbe deceduto (ormai è ufficiale!), nonostante la cucina piccanterrima dell’Andhra e l’incredibile carica batterica tutt’intorno a noi

  5. Che alla fine Indian Railways si sarebbe rivelata migliore di Trenitalia: se non altro perchè loro i treni notturni ce li hanno ancora! – Addio, Treno del Sole…

  6. Che alla stazione di Khammam, scendendo dal treno dopo un lungo viaggio, avrei provato la sensazione dolce e rassicurante di essere tornata a casa

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Sogni grandiosi

Spesso l’abitudine, la routine, la pigrizia e la paura possono avere un effetto anestetizzante. E allora ridimensioni i sogni e i progetti, pensando che siano troppo ambiziosi, utopici, e convincendoti di non esserne all’altezza. Oppure li metti da parte, rimandandoli all’infinito, a quando avrai tempo, a quando sarai “pronto”. E poi non hai mai tempo e “pronto” non lo diventi mai. Oppure, più semplicemente, li dimentichi. Come se calasse la nebbia.

Ecco, certi incontri hanno la dirompente potenzialità di squarciare questa nebbia. Possono scuoterti e lasciarti attonito di fronte alla dimostrazione che non è vero, non è vero che non si può fare. O meglio, magari poi non funziona, magari non è come l’avevi immaginato. Ma almeno provare, quello sta a te. E non è detto che il momento migliore per farlo sia domani.

Quando succede, capisci che non è più tempo di ridimensionare, mettere da parte, rimandare, dimenticare. Che il viaggio che sognavi, e a cui poi non hai più pensato, vale la pena di farlo, o almeno di prenderlo seriamente in considerazione. Che affrontare un proprio blocco mentale può risultare più semplice e naturale del previsto. Che mettersi in gioco attivamente, andando oltre lo stadio dei buoni propositi, è possibile, basta impegnarcisi un po’. E di certo non si cambia il mondo da soli nel giro di un mese, e magari neanche nel corso di una vita, ma questa non è una buona ragione per non fare nulla e rinunciare anche a quel piccolo impatto che si potrebbe avere.

A Khammam, a Bonakal, a Warangal, ho conosciuto persone straordinarie; non cambieranno il mondo, ma sono sicura che senza di loro quell’angolo di mondo sarebbe un po’ peggiore.

Bisognerebbe fare sogni grandiosi, oltre la noia e le nevrosi”…

Certi incontri, dicevo, sono disarmanti: ti spogliano di tutte le tue scuse e ti impediscono, almeno per un attimo, di continuare a giustificare la mediocrità.

…To be continued…

Bismarck & l’India

30/11/2011

Il breve ritorno a Mariapuram, la seconda volta dai Jamaican Brothers, l’incontro con i salesiani della Provincial House di Hyderabad e la loro ospitalità semplicemente disarmante, e poi le nostre rocambolesche avventure in Kerala… Le ultime due settimane sono state così intense e ci sarebbe così tanto da raccontare, e invece, per mancanza di tempo e mezzi, non ho potuto che annotare qualche appunto sul diario di viaggio – un pregevole taccuino ricavato dalla lavorazione di escrementi di elefante! Prima o poi scriverò anche di questi giorni, perchè non voglio dimenticare neanche una briciola di ciò che è successo, nel bene e nel male – che poi, a raccontarlo, è sempre la parte più divertente!

La mia natura bismarckiana mi imporrebbe di non tradire l’ordine cronologico, la consecutio temporum e via dicendo. Mi infastidisce parlare prima del ritorno e poi di ciò che lo ha preceduto: chi mi conosce bene sa che il mio archivio virtuale è maniacalmente organizzato e ordinato proprio quanto caotica è la mia gestione degli oggetti e degli spazi reali, e questo blog fa indiscutibilmente parte della prima categoria. Ma vengo dall’India, giusto? E allora forse posso concedermi una piccola licenza. Perchè dall’India anche Bismarck sarebbe tornato un po’ più elastico, ne sono certa. E forse anche lui, seduto su quest’aereo diretto a casa, avrebbe preferito cogliere l’attimo per tirare un po’ le fila dell’avventura, invece di rimandare ancora solo perchè la cronaca degli eventi precedenti non è ancora completamente nero su bianco – o bianco su nero, in questo caso! E allora, con un po’ di riluttanza ma abbastanza convinzione, lo faccio, questo sforzo, e la rompo, questa regola…

The Indian description of God

Every where and in every thing. In the sky, in the rivers, in the plants and trees and even in a particle of dust. An enigma. In many things at a time and is many things at a time. Visible as well as invisible. Is here and is there. Above and below. With form and also without form. Speaks and speaks not. The self and also the not self.

(Kingfisher inflight magazine)

Leaving Khammam ain’t easy

Ecco la cronaca un po’ sconnessa e tremendamente emotiva delle ultime ventiquattro ore a Khammam.

Sabato 12 novembre

Da sempre gli addii mi affascinano, mi suscitano un misto di attrazione e rigetto. Perchè sono forse i momenti più intensi, più romantici nel senso letterario del termine. Momenti in cui dolore e bellezza si mescolano e ti fanno sentire vivo.

Lasciare un luogo a cui ci si è affezionati, in cui ci si è sentiti a casa, in cui si sono fatti incontri significativi ed esperienze importanti, non è mai facile. Per me non lo è mai stato. E Khammam, e il compound, e Karunagiri sono proprio tutto questo.

Domani mattina presto partiamo per Warangal, dunque questo è il fatidico ultimo giorno. E’ incredibile come, dopo due mesi pieni di tempi morti, nelle ultime ore le cose da fare sembrino moltiplicarsi esponenzialmente ed è chiaro che il tempo non basterà e che bisognerà rinunciare a qualcosa.

Io e Rossella usciamo all’alba per fare una passeggiata nel compound scattando qualche foto. Poi visitiamo con Claudio una cooperativa che rientra nel progetto Arbor e spendiamo il resto della mattinata davanti al tailoring centre aspettando Sister Linda, la sarta, che ci deve consegnare i nostri punjabi. La suora non c’è, ma una delle sue aiutanti, ragazzina che patla pochissimo inglese, ci dice che arriverà “at ten o’clock”. Non ho la forza di farle notare che sono già le dieci e trenta. Semplicemente India. Dopo un’ora e mezza di vana attesa, decidiamo di riprovare nel pomeriggio e ci dirigiamo verso casa per fare le valigie e dare una pulita alla stanza.

Un pranzo veloce, poi comincia la danza dei saluti. La nostra prima tappa è la Bishop’s House. Il vescovo di Khammam, un personaggio che è tutto un programma e che purtroppo non ho ancora avuto modo di ritrarre a dovere, ci dà del materiale per la nostra ricerca e ci regala delle pillole ayurvediche per digerire (!) e due grossi scialli molto indianosi, probabilmente donatigli durante qualche visita nei villaggi.

Non ci aspettavamo nulla del genere, anche perchè non l’abbiamo visto molto in questo mese, e ce ne andiamo intenerite con un arrivederci a Torino – dovrebbe venire a maggio per delle conferenze.

Salutato The Bishop, dovremmo andare in centro a Khammam per stampare alcune foto e incontrare i nostri amci del Diwali, ma loro non ci confermano l’appuntamento per cui decidiamo di rinunciare e copncentrarci sugli addii interni al compound.

Entriamo nel cortile della scuola e Mamatha ci corre incontro insieme ad altre bambine. Restiamo un’oretta a giocare con loro e scattare foto, fino a quando siamo costrette ad andarcene perchè loro loro devono tornare in classe.

La tappa successiva è la casa della congregazione spagnola. Qui comincia la fase davvero struggente. Le nostre amiche ci accolgono con la solita merenda e non vorrebbero più lasciarci andare via. Ogni volta che stiamo per accomiatarci, Sister Gloria se ne esce con un argomento nuovo, un altro dolce che dobbiamo assolutamente assaggiare o delle foto che dobbiamo assolutamente vedere. Alla fine ci scambiamo i contatti e poi ci accompagnano all’uscita. C’è una certa tensione nell’aria e io e Rossella benediciamo l’oscurità mentre ce ne andiamo con gli occhi lucidi.

Alla luce fioca della torcia, rumoreggiando per allontanare eventuali pamu, ci dirigiamo verso la casa di Sister Jane Maria, vicino alla scuola. Lei è felice di vederci e ci ringrazia più volte per la visita, temeva che non avremmo fatto i tempo a salutarci. Siamo noi che dobbiamo ringraziarti e non ce ne saremmo mai andate senza salutarti, penso io.

Prendiamo un altro tè con lei e le sue consorelle, tra cui Sister Mercitta, che ci dice che non possiamo tornare a piedi da sole e al buio fino a Karunagiri perchè è pericolos, oggi era pieno di scimmie e potrebbero attaccarci. Noi ci faremmo volentieri comunque la nostra passeggiata ma lei insiste per chiamarci un risciò.

Quando il risciò arriva dobbiamo fare tutto un po’ in fretta. Sister Jane Maria ha gli occhi lucidi; le giuro che torneremo e mi sforzo per sorridere, ma mi trema un po’ la voce. Vorrei salutare per bene Mamatha ma non c’è tempo, dobbiamo andare. Riesco solo a lasciare a Sister Mercitta una collana di plastica che mi avevano dato a Bonakal, chiedendole di consegnargliela da parte mia.

Accovacciata sul sedile posteriore del risciò che si avventura sobbalzando lungo la strada del compound, sento finalmente esplodere in un pianto copioso e catartico tutta la tensione e la malinconia accumulate durante la giornata. Intuisco che Rossella, seduta accanto a me, non è messa meglio. L’autista ci prenderà per matte…

Entriamo in ufficio singhiozzando, di fronte a Claudio e Luca, piuttosto divertiti, e ad un’attonita Sister Sheeba.

Troviamo la forza, con la complicità di Luca, di preparare un grosso serpente di carta e infilarlo nel letto di Claudio per ripagarlo di tutti gli scherzi sui pamu che ci ha fatto negli ultimi due mesi.

Durante la cena, che condividiamo con Sister Sheeba e le sue consorelle, io e Rossella diamo spettacolo: non riusciamo a trattenere le lacrime, proprio non ci riusciamo, e allora ci viene anche da ridere, e ridiamo e piangiamo insieme, a sprazzi, per tutta la cena, mangiando con le mani e impiastricciandoci di cibo e lacrime, di fronte agli sguardi profondamente perplessi delle suore. Alla fine ci riprendiamo e recuperiamo un po’ di dignità preparando tisana allo zenzero per tutti. Ma il tracollo emotivo è sempre in agguato. Al omento di accomiatarci da Sister Sheeba…

– Sister, will you be here tomorrow morning or shall we say goodbye now?

– I guess it’s better now

– Ooh, Sisteer!, mugolo io, abbracciandola con gli occhi di nuovo umidi

– Ok, ok, I will come also tomorrow, promette Sheeba, un po’ imbarazzata.

E con questa scenetta ce ne andiamo a dormire, stremate dalla giornata intensa e piagnucolosa.

Domenica 13 novembre

La mattina dopo ci alziamo ptesto per partire. Mentre portiamo i bagagli alla macchina, incontriamo lungo il vialetto die suore piuttosto anziane e rimbambite, note per la loro apertura mentale: tanto per dire, una volta hanno sgridato Rossella perchè non va a messa ogni giorno (e due!), un’altra volta hanno visto che Claudio stava leggendo un libro e gli hanno detto che avrebbe dovuto leggere solo il Vangelo.

– Che cos’è questa cosa che porti al collo?

– Una moneta danese

– E perchè?, mi chiedono, con aria perplessa.

– Perchè ho vissuto in Danimarca e… è un ricordo.

– Oh, non è bello!

– Non è… bello? Perchè?

– Dovresti indossare una medaglia di Gesù o di Maria, non una moneta. Non è bello. Perchè non indossi un rosario?

Ora, una persona nel pieno delle sue facoltà psichiche capisce quando è ora di lasciar perdere, quando discutere semplicemente non ha senso. Ma io, prima di colazione e in un momento di fragilità emotiva, non sono proprio nel pieno delle mie facoltà.

– Perchè non sono credente.

Apriti cielo. Seguono il solito interrogatorio su di me e la mia stirpe tutta e il solito tentativo di evangelizzazione in cui viene coinvolta anche Rossella, alla quale le due rintronate raccomandano la mia anima, mentre lei tenta di convincerle che comunque sono “una brava persona” e io mi mangio la lingua cercando una via di fuga. L’ultima cosa che voglio è sprecare i miei ultimi, preziosi momenti a Karunagiri con queste due scocciatrici.

Magicamente mi suona il cellulare. E’ Claudio, che ci stava osservando dalla finestra: “Ho pensato di salvarti il culo, dì che vi stanno chiamando e che dovete andare!”. Mai intervento fu più opportuno. Fuggiamo con le valigie, mentre le due suore mi assicurano che pregheranno tanto perchè trovi la fede e che la prossima volta mi regaleranno una Bibbia che Rossella dovrà aiutarmi a leggere.

L’ultima veloce colazione con la nostra mitica marmellata, e poi ancora un round di saluti. Kumari, la segretaria di Arbor, ci abbraccia commossa. Noi riapriamo i rubinetti, ancora una volta. Mentre cerco la pace interiore osservando il bucolico paesaggio di Karunagiri dalla mia finestra preferita, Maniamma, la cuoca, mi raggiunge. Le lacrime mi rigano il viso.

– Enduku?, perchè?, mi chiede lei.

– Because I’m going away.

Lei mi sorride e mi aggiusta sulle spalle la sciarpa del punjabi. Non parla inglese ma so che ha capito.

Un ultimo abbraccio a Sister Sheeba e ci ritroviamo sedute nel retro della jeep.

Dal vetro posteriore guardo la strada che scorre via veloce, mentre ci lasciamo alla spalle quest’angolo di mondo ripetendo a noi stesse che non è un addio.

Leaving Khammam ain’t easy…

Maniamma

Maniamma, piccola figura esile ed elegante con gli occhi grandi e un bel viso dolce, è la cuoca dell’ufficio di Karunagiri.

Ha l’aria timida e un po’ malinconica, ma un suo sorriso può illuminare la stanza.

Maniamma è vedova, suo marito è morto qualche mese fa di meningite fulminante. Era un alcolizzato, come tanti, tantissimi uomini in India, e veniva chiamato in caso di pamu perchè i serpenti, infastiditi dall’odore dell’alcool, si allontanavano quando lo sentivano arrivare.

Vive in una casetta nel compound con i suoi due figli. Il più piccolo, Sandeep, un bambino splendido e simpaticissimo, è stato adottato a distanza da Rossella. Prima vivevano in una piccola capanna di frasche. Sister Sheeba, che ha una certa esperienza con i poveri in India, dice di non aver mai visto in vita sua un’abitazione così povera.

Maniamma non parla inglese, ma abbiamo provato da subito una forte simpatia reciproca; nel giro di pochi giorni io, lei e Rossella abbiamo cominciato ad intrattenere divertenti conversazioni in un improbabile misto di telugu, inglese, italiano e gesti, e la cosa più incredibile è che, in qualche modo, rusciamo anche a capirci abbastanza.

In un certo senso è lei che ci ha adottate e si prende cura di noi, aggiustandoci maternamente addosso il sari mentre noi, dal canto nostro, tentiamo di coinvolgere lei e Sandeep in ogni nostro spuntino e le abbiamo regalato un vasetto della nostra celebre marmallata.

A volte, mentre tentiamo di parlarci nel nostro strano codice misto, penso che è davvero un peccato non poter approfondire questo rapporto per via di una stupida barriera linguistica. Poi, però, penso a quanto è intenso questo modo di comunicare oltre le parole… e mi accorgo che è bello anche così.

Mamatha

Mamatha è una piccola lambadi. Ha un bel viso tondo e due lunghe trecce arrotolate e infiocchettate. Ha otto anni e purtroppo parla poco inglese, ma il suo sorriso comunica meglio delle parole.

E’ orfana di padre, e vive a va a scuola nel compound, mentre la madre e i due fratellini abitano ancora nel suo villaggio d’origine, in una capanna di fango e frasche senza servizi e senz’acqua. Hanno solo una lampadina alimentata da un attacco abusivo ai cavi della luce.

Mamatha è la bambina che ho adottato a distanza… o meglio, come si dice da queste parti, io sono diventata il suo sponsor.

A Khammam non avevo avuto modo di conoscere bene i bambini come a Warangal – sono troppi e non stavamo nella stessa struttura – e comunque eleggerne uno tra tanti sarebbe stato brutto e dificile, quindi non ho voluto scegliere. Volevo solo che fosse femmina, perchè la parità tra i sessi da quaeste parti è ancora un’utopia lontana e le bambine sono piuttosto svantaggiate rispetto ai loro compagni maschi e hanno ancora più bisogno di un’opportunità. Ho chiesto alla suora che si occupa del progetto, Sister Mercitta, di assegnarmene una che avesse particolarmente bisogni di aiuto, e lei si è ptesa un giorno per pensarci. Il giorno dopo mi ha presentato Mamatha.

Il nostro primo incontro è stato emozionante e un po’ imbarazzante. All’inizio riuscivamo solo a stdiarcia vicenda, senza trovare le parole giuste, divise dalla barriera linguistica e dalla timidezza di entrambe. Ancora una volta è toccato a Claudio rompere il ghiaccio con qualche domanda. Nei due giorni successivi abbiamo compilato insieme la sua scheda per inserirla nella lista delle adozioni e io e Rossella abbiamo trascorso un po’ di tempo con lei e le altre bambine, prendendo confidenza grazie a giochi, canti e foto – le foto le fanno davvero impazzire!

Avrei voluto avere più tempo per conoscerla meglio…

Era da tempo che volevo fare una cosa del genere, è incredibile pensare che con una cifra per noi così modesta – più o meno l’equivalente di un caffè ogni due giorni – si possa mantenere un bambino per un anno e permettergli di studiare, e questa mi è sembrata l’occasione ideale: ho conosciuto Semi Onlus, ho visto come lavora, e mi hanno assicurato che posso venire quando voglio a trovare la bambina e vedere come va.

E in fondo è anche un buon modo per stringere un legame ancora più concreto con questo posto… nonché una scusa in più per tornare!